21 Ottobre 2025
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AUTORE: Avi Loeb – 15 Ottobre 2025 – Vai all’articolo originale LINK

Un acquerello con un’intuizione sull’arte e la scienza di Albert Einstein: “Laddove il mondo cessa di essere la scena delle nostre speranze e dei nostri desideri personali, laddove lo affrontiamo come esseri liberi: ammirando, chiedendo, osservando, lì entriamo nel regno dell’arte e della scienza.” (Credito: Greg Wyatt)

La bellezza della vita come la conosciamo richiede acqua ed è caratterizzata dai colori. Siamo grati alla generosità delle condizioni iniziali dell’Universo che hanno portato alla creazione della vita intelligente da un brodo chimico sulla superficie della Terra. Il pennello che ha dipinto la vita intelligente sulla Terra potrebbe aver creato circostanze simili su miliardi di analoghi Terra-Sole, ancora da scoprire, come un’immagine acquerellata a puntini della galassia della Via Lattea.

Una volta trovati i nostri fratelli nella famiglia delle civiltà intelligenti, probabilmente sentiremo una connessione più profonda con il cosmo. Sembrerebbe casa piuttosto che lo spazio freddo concepito dai cosmologi per contenere entità senza vita con un’evoluzione senza scopo.

I colori della vita sono adeguatamente catturati negli acquerelli. L’artista straordinariamente affermato Greg Wyatt mi ha contattato inaspettatamente con il desiderio di donare 50 ritratti a puntini ad acquerello incorniciati di illustri scienziati e 2 sculture in bronzo su Galileo Galilei al mio ufficio all’Osservatorio del Harvard College. Sono sbalordito dall’incredibile generosità di Greg, che ha spiegato essere stata ispirata dalla mia ricerca scientifica.

Gli acquerelli e le sculture in bronzo saranno consegnati al mio ufficio entro la fine di questa settimana e poi svelati al pubblico in un evento celebrativo il 13 novembre 2025. Il brillante compositore residente, David Ibbett, presenterà con il suo ensemble un nuovo brano musicale per celebrare questo insolito evento all’intersezione tra arte e scienza.

Il regalo di Greg mi ha fatto l’anno. Non posso sottolineare abbastanza quanto profonda sia la mia gratitudine per l’umiliante fatto che a partire da questa settimana il mio ufficio di ricerca si trasformerà in un museo d’arte. I 50 acquerelli svolgono un’importante funzione educativa per i miei studenti e post-dottorandi, poiché ogni acquerello include un’ispiratrice intuizione di un illustre pioniere scientifico. Gli acquerelli puntinati di Greg sono composti da molti punti che si uniscono armonicamente in un motivo profondo.

La lezione principale che traggo guardando i bellissimi acquerelli a puntini di Greg è che per notare il segnale, è essenziale ignorare il rumore. Nella ricerca scientifica, il segnale sono le anomalie nei dati raccolti dagli strumenti e il rumore proviene dall’ambiente, inclusi i colleghi che si rifiutano di immaginare l’inaspettato. La convergenza prematura sul rifiuto delle anomalie ha conseguenze negative sull’efficienza della scoperta scientifica. Ad esempio, la popolare ipotesi che 1I/’Oumuamua fosse una cometa, nonostante non ci fossero prove di gas o polvere attorno ad essa, ha attenuato l’urgenza di raccogliere dati critici per svelarne la vera natura tra novembre 2017 e gennaio 2018. Poiché non sono stati raccolti dati sufficienti, la natura di 1I/`Oumuamua rimane sconosciuta. La tendenza psicologica a liquidare le anomalie promuove un’ignoranza persistente piuttosto che scoperte rivoluzionarie. Poiché gli oggetti interstellari trascorrono un tempo limitato nel sistema solare interno, è essenziale utilizzare tutti gli osservatori disponibili per studiarli. Questo è stato il messaggio principale trasmesso in un nuovo Libro Bianco (accessibile qui) – che chiede un’azione riguardo agli oggetti interstellari, che ho presentato questa settimana in collaborazione con Omer Eldadi e Gershon Tenenbaum all’Unione Astronomica Internazionale.

L’evento di presentazione condividerà con il pubblico i seguenti materiali di riferimento:

Greg Wyatt: Perché creo acquerelli?

Prima di creare ritratti ad acquerello a strisce, avevo quattordici anni e mio padre era professore di pittura e storia dell’arte al C.C.N.Y. Durante quell’estate raggiungevo mio padre al C.C.N.Y. tre volte a settimana. Al mio arrivo al C.C.N.Y., mi ha sistemato in uno studio di disegno proprio accanto al suo studio di insegnamento della pittura e mi ha introdotto al metodo del contorno cieco.

Mio padre mi spiegò che c’era un ottimo istruttore alla Art Students League di nome Kimon Nicolaides che aveva recentemente pubblicato un libro intitolato “Il modo naturale di disegnare”. Non essendo familiare con questo libro di disegno, mio padre mi ha spiegato che Kimon Nicolaides proponeva un metodo di insegnamento che enfatizzava il disegno come un processo di vera visione e di esperienza fisica della forma, piuttosto che la copia delle apparenze.

Credeva che il disegno non fosse solo un’attività visiva ma anche cinestesica, in cui l’artista imparava a coordinare occhio, mente e mano. Mio padre ha affermato che l’approccio di Nicolaides si basava su esercizi come il disegno a gesto, il disegno a contorno e il disegno a memoria, progettati per consentire agli studenti di sentire l’energia, il movimento e la struttura del soggetto. Ha sostenuto che praticando questi esercizi con disciplina e ripetizione, gli studenti svilupperebbero una comprensione intuitiva della forma e dello spazio, e che imparare a disegnare non è una formula ma una risposta diretta e vissuta a ciò che gli studenti vedono effettivamente.

Ad esempio, mio padre ha affermato che Kimon Nicolaides ha sottolineato che gli studenti devono esercitarsi con il metodo del contorno cieco, in cui uno studente disegna il contorno di un oggetto senza guardare il foglio, tenendo gli occhi fissi solo sull’oggetto osservato. Questo esercizio enfatizza l’osservazione più attenta e allena la mano a seguire l’occhio, rafforzando così la connessione tra il vedere e il disegnare, piuttosto che concentrarsi sull’ottenere un risultato rifinito.

Quando ho provato il metodo del contorno cieco, i miei risultati producevano immagini astratte e distorte, ma dopo aver praticato il metodo del contorno cieco per diverse settimane ho capito che il suo valore risiede nell’affinare la percezione visiva e la coordinazione tra occhio, mente e mano. Con questo metodo di disegno, a seconda di come si intende creare un ritratto ad acquerello a puntini, gli artisti dovrebbero innanzitutto considerare le loro scelte di carta per acquerello, poiché esistono fondamentalmente due tipi di carta per acquerello: pressata a freddo e pressata a caldo.

La carta per acquerello si divide sostanzialmente in due categorie distinte: la raffinatezza liscia della pressata a caldo e la ricchezza di texture della pressata a freddo. La carta per acquerello pressata a freddo ha un assorbimento più moderato che permette all’acqua e al pigmento di penetrare nella carta senza espandersi in modo incontrollabile. Questa carta per acquerello è una scelta universale per gli artisti professionisti che dipingono fiori e soggetti più tradizionali.

Per le ragioni che ho esposto sopra, preferisco usare carta per acquerello pressata a caldo, che è meno assorbente, facendo asciugare l’acqua e la pittura più lentamente, il che a sua volta permette agli artisti un maggiore controllo quando desiderano mescolare i pigmenti per ottenere un medium molto espressivo.

La carta pressata a caldo è il tipo di carta per acquerello utilizzato dagli artisti per ottenere i dettagli più fini nella modellazione delle forme della natura, dell’anatomia umana e per creare l’illusione di ritratti tridimensionali.

Il processo dell’acquerello a puntini inizia con una base molto accurata, poiché il processo dipende dalla precisione e dalla pazienza. Quegli artisti che decidono di usare una penna rapidograph anziché una matita, lo fanno perché una penna rapidograph è uno strumento specializzato noto per produrre linee precise e sottili, comunemente utilizzato nel disegno architettonico e nei ritratti ad acquerello a puntini.
Gli artisti che usano penne a china permettono loro di posizionare sulla carta acquerello molti piccoli punti per costruire toni, trame e forme. Invece delle tecniche di ombreggiatura tradizionali, gli artisti possono usare la penna radiografica per concentrare il posizionamento dei punti per indicare luce e ombra.

Senza dubbio, il processo ad acquerello a puntini utilizzato dagli artisti viene eseguito lentamente e pazientemente, consentendo loro di selezionare pigmenti ad acquerello che amplificano la profondità spaziale che circonda le forme naturali. Ad esempio, quando gli artisti creano ritratti ad acquerello a puntini, i toni freddi possono suggerire aree in ombra, mentre le tonalità più calde possono far risaltare i punti luce. Poiché questi artisti mantengono un senso di direzione nel loro puntinismo, seguono i contorni naturali del viso in modo che le texture facciali sostengano le forme anatomiche anziché appiattirle.

Una volta che i valori e i toni di base sono a posto, gli artisti possono arricchire il ritratto sovrapponendo i colori. Invece di mescolarli su una tavolozza, questi artisti posizionano punti di penna rapidograph complementari o contrastanti uno accanto all’altro, il che permette all’occhio di mescolarli a distanza in un ritratto acquerellato puntinista. Questa tecnica conferisce al ritratto vivacità e consistenza, pur preservando il carattere nitido di ciascuno dei punti creati.

Per mantenere i bordi definiti, gli artisti variano le dimensioni e la concentrazione dei punti: punti più piccoli e fitti per tratti netti come occhi, narici e labbra, punti più grandi e diffusi per creare transizioni più morbide come per guance e capelli. Il risultato è un ritratto che appare luminoso e dettagliato se visto da lontano, ma che rivela la sua lavorazione punto per punto da vicino.

Aggiungere citazioni da persone perspicaci e intelligenti può arricchire la creazione di ritratti a puntini ad acquerello, offrendo un livello più profondo di riflessione e ispirazione. I pigmenti ad acquerello, con la loro fluidità e imprevedibilità, spesso rispecchiano le complessità del pensiero e dell’emozione che risuonano frequentemente e offrono riflessioni con le intuizioni e le emozioni trasmesse da queste sagge parole.

Ammiro anche i pittori francesi dell’Ottocento che praticavano il puntinismo, come Georges Seurat, che praticava il puntinismo, una tecnica pittorica rivoluzionaria caratterizzata dall’applicazione meticolosa di piccoli e distinti punti di colore puro, posti molto vicini sulla tela. Invece di mescolare i pigmenti su una tavolozza, Seurat si affidava all’occhio e alla mente dello spettatore per mescolare otticamente i colori a distanza, producendo effetti luminosi e sottili gradazioni di tono. Radicato nelle teorie scientifiche del colore e della percezione, il puntinismo conferì alle sue opere d’arte una qualità scintillante, quasi vibrante.

Paul Signac, un artista francese dell’Ottocento, fu una figura chiave nello sviluppo del puntinismo, che lavorò a fianco di Georges Seurat per perfezionare la tecnica in ciò che divenne ampiamente noto come neoimpressionismo. Mentre Seurat introdusse il metodo di dipingere con piccoli punti di colore puro, Signac lo ampliò in pennellate più ampie ed espressive, composte da piccoli tocchi distinti che si basavano ancora sulla miscelazione ottica. Il suo uso di colori vibranti e accuratamente disposti conferiva ai suoi dipinti una luminosità che veniva utilizzata quando raffigurava paesaggi marini, porti e ampie vedute mediterranee.

Henry Matisse, un artista francese del XIX secolo, sperimentò il puntinismo all’inizio della sua carriera, in particolare negli anni ’90 dell’Ottocento, quando fu influenzato da Paul Signac e dai neo-impressionisti. Matisse applicava piccole pennellate e tocchi distinti di colore puro per catturare la luce scintillante e l’armonia vibrante, riprendendo il metodo puntinista. Tuttavia, a differenza della rigorosa precisione scientifica di Seurat, Matisse utilizzò la tecnica in modo più libero ed espressivo, trattando il colore come una forza emotiva piuttosto che come un effetto ottico.

Creare un ritratto ad acquerello a puntini di Galileo Galilei combina tecniche artistiche con una reverenza storica, e grazie a questa affermazione, i ritratti ad acquerello a puntini risultano essere un’opera d’arte che celebra sia la scienza che l’arte. Incorporando le citazioni di Galileo in un ritratto acquerellato a puntini, l’opera d’arte trascende la semplice rappresentazione ritrattistica, diventando invece una meditazione sulla sua visione duratura. Le sue parole, come “Tutte le verità sono facili da capire una volta scoperte; il punto è scoprirle”. Questa citazione risuona con il processo stesso del ritratto ad acquerello a puntini, dove innumerevoli piccoli segni rivelano gradualmente forma e significato. Ogni punto di penna rapidograph diventa sia un gesto di pazienza artistica che un’eco della ricerca di scoperta dell’artista, legando insieme il visivo e l’intellettuale.

Circondando l’immagine di Galileo con le stesse frasi che hanno plasmato la sua eredità, il ritratto acquerellato a puntini acquista una voce, invitando gli spettatori non solo a vedere Galileo come appariva, ma a sentire il ritmo dei suoi pensieri, la poesia della sua scienza e l’eterna ricerca della verità che ha definito la sua vita e la sua eredità.


Un acquerello del volto di Galileo Galilei dopo che osservò le quattro lune di Giove. (Credito: Greg Wyatt)

Avi Loeb: Perché sono diventato uno scienziato che ama gli acquerelli?

(Capitolo 2: “La Fattoria”, dal libro bestseller “Extraterrestre”, Harper-Collins 2021; tradotto in 27 lingue)

Uno dei miei primi ricordi è di essere arrivato un po’ in ritardo a scuola il mio primo giorno di prima elementare. Quando sono entrato in classe, i bambini correvano in giro e saltavano sulle sedie e persino sui banchi. Era il caos.

La mia reazione è stata curiosità. Guardai i miei compagni di classe e pensai: Dovrei unirmi a loro? Ha senso comportarsi così? Perché lo stanno facendo? Perché dovrei? Sono rimasto un momento vicino alla porta, cercando di trovare una risposta alle domande.

L’insegnante entrò pochi secondi dopo. Dire che fosse infelice era un eufemismo. Non era così che voleva che iniziasse il nuovo anno scolastico. Cercando di affermare la sua autorità e calmare gli studenti, ha visto in me un’opportunità per rimettere le cose a posto. “Guardate come è bravo Avi,” disse alla classe. Non potete tutti seguire il suo esempio?

Ma la mia placidità non era un segno di virtù. Non avevo deciso che la cosa giusta da fare fosse stare fermo in silenzio ad aspettare l’arrivo dell’insegnante; semplicemente non avevo capito se avrebbe avuto senso per me unirmi al caos.

Volevo dirlo all’insegnante, ma non l’ho fatto, cosa che ora penso sia stato un peccato. La lezione che i miei compagni di classe avrebbero potuto imparare dal mio comportamento – una lezione che alla fine ho imparato anch’io e che da allora ho cercato di insegnare ai miei studenti – non riguardava se dovresti o non dovresti seguire la massa, ma piuttosto che dovresti prenderti del tempo per capire le cose prima di agire.

Nella deliberazione c’è l’umiltà dell’incertezza. Anche questo è un atteggiamento verso la vita che ho cercato di abbracciare, coltivare nei miei studenti ad Harvard e instillare nelle mie figlie. Dopotutto, è quello che i miei genitori hanno cercato di inculcarmi.

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Sono cresciuto in Israele nella fattoria della mia famiglia a Beit Hanan, un villaggio a circa ventiquattro chilometri a sud di Tel Aviv. È una comunità agricola risalente al 1929, e poco dopo la sua fondazione contava 178 abitanti. Entro il 2018, tuttavia, quel numero era sceso a soli 548. Quando ero bambino, il villaggio era definito dai suoi frutteti e dalle sue serre, dove si coltivavano ogni tipo di frutta, verdura e fiori. Era anche un moshav, un tipo speciale di villaggio. A differenza di un kibbutz, dove la terra viene coltivata in comune, un moshav è composto da singole famiglie che possiedono le proprie fattorie.

La nostra fattoria era nota per il suo grande campo di alberi di pecan — mio padre era a capo dell’industria del pecan in Israele — ma coltivavamo anche arance e pompelmi. Quando ero giovane, i pecan, che possono crescere fino a oltre trenta metri, mi sovrastavano, ma gli agrumi, con il loro odore caratteristico e pungente quando il frutto era maturo, raramente superavano i tre metri ed erano più facili da scalare.

Curare i boschi e supervisionare i macchinari necessari era un’occupazione a tempo pieno per mio padre, David, che era un abile risolutore di problemi. In effetti, lo ricordo soprattutto attraverso gli oggetti: i trattori che riparava, gli alberi dei nostri frutteti che curava, gli elettrodomestici che aggiustava in tutta la nostra casa e fattoria. Un ricordo particolarmente vivido che ho è di lui che saliva sul tetto della nostra casa nell’estate del 1969 per assicurarsi che la ricezione della nostra televisione ci permettesse di guardare l’allunaggio dell’Apollo 11.

Per quanto fosse capace mio padre, l’enorme quantità di lavoro significava che rimanevano molti compiti quotidiani per me e le mie due sorelle. Allevavamo polli e in tenera età raccoglievo le uova ogni pomeriggio e passavo molte notti con una torcia a caccia di pulcini soffici che erano scappati dalle loro gabbie.

Israele negli anni ’60 e ’70, i decenni dei miei primi anni, era un luogo precario. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i rifugiati ebrei aumentarono la popolazione di circa un terzo, e il numero di persone nella regione passò da due milioni a poco più di tre milioni. Molti venivano dall’Europa, e gli echi dell’Olocausto non furono mai assenti. Inoltre, i paesi arabi del Medio Oriente erano risolutamente ostili verso Israele, che era determinato a resistere. Un conflitto ne seguì un altro: la guerra del Sinai del 1956 fu seguita dalla guerra dei sei giorni del 1967, che fu seguita dalla guerra del Kippur del 1973. Sebbene avesse solo pochi decenni al tempo della mia infanzia, Israele era intriso di storia recente e antica, e gli israeliani allora — come ora — erano consapevoli che la continua sopravvivenza della loro nazione dipendeva dalla riflessione sulle conseguenze delle loro scelte.

È anche un paese bellissimo, e Beit Hanan e la fattoria della mia famiglia erano posti splendidi per crescere. Quest’atmosfera libera ha ispirato i miei primi scritti, appunti che ho raccolto e ammucchiato nel cassetto superiore della mia scrivania. In effetti, per gran parte della mia vita adulta è stata una fede animatrice per me che, se i miei modi di libero pensatore mi avessero mai messo nei guai, avrei sempre potuto, e molto volentieri, tornare alla fattoria della mia infanzia.

Si pensa comunemente che la vita sia una collezione dei luoghi che si visitano. Ma questa è un’illusione. La vita è una collezione di eventi, e questi sono il risultato di scelte, solo alcune delle quali spettano a noi.

Ci sono, naturalmente, delle continuità. La scienza che faccio è collegata da una linea diretta alla mia infanzia. Era un tempo innocente di interrogarsi sulle grandi domande della vita, di godere della bellezza della natura e, tra i frutteti e i vicini stretti di Beit Hanan, di non preoccuparsi del mio status o della mia posizione.

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La catena causale che mi ha portato a Beit Hanan è iniziata, approssimativamente, con la decisione di mio nonno (e, in ebraico, mio omonimo) Albert di fuggire dalla Germania nazista. Più lucido di molti, previde la probabilità di un cataclisma, la rapida deriva degli eventi che, anche prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, prometteva agli ebrei una gamma di scelte sempre più ristretta, un rischio sempre crescente di conseguenze disastrose se non avesse scelto la strada giusta

Fortunatamente per lui, e per me, Albert ha fatto la scelta giusta. Lasciò la Germania nel 1936 e si trasferì a Beit Hanan poco dopo la sua fondazione. Sebbene fosse in gran parte disabitata e, come il mondo, sferzata dai venti di guerra in aumento, la comunità agricola era un rifugio relativamente sicuro. Poco dopo il suo arrivo, fu raggiunto da mia nonna Rosa e dai loro due figli, uno dei quali era mio padre, allora undicenne. Quando passò da una società tedesca a una ebraica, il suo nome fu cambiato da Georg a David.

Anche mia madre, Sara, è venuta a Beit Hanan da lontano. È nata e cresciuta a Haskovo, vicino alla capitale bulgara Sofia. La coincidenza geografica che la rese bulgara e non tedesca salvò lei e la sua famiglia durante la guerra; sebbene si alleasse con il regime nazista, la Bulgaria mantenne la sua sovranità e quindi una parte della sua capacità di resistere alle crescenti richieste di Adolf Hitler affinché il paese deportasse i suoi ebrei in Germania. Mentre circolavano le voci sui campi di sterminio, la Chiesa ortodossa bulgara protestò contro le deportazioni e il re bulgaro trovò la forza di rifiutare le richieste della Germania. Per essere chiari, lo fece dichiarando che la Bulgaria aveva bisogno dei suoi ebrei per la propria forza lavoro, ma la conseguenza fu che riuscì a proteggere molti degli ebrei della nazione. Mia madre ha quindi potuto godere di un’infanzia relativamente normale. Ha studiato in una scuola monastica francese e alla fine è entrata al college a Sofia. Ma nel 1948, con l’Europa del dopoguerra in rovina e l’Unione Sovietica in espansione verso ovest, lasciò la scuola ed emigrò con i suoi genitori nella nuova nazione di Israele

I primi fondatori di Beit Hanan provenivano dalla Bulgaria, quindi il fatto che la famiglia di Sara sia finita lì non è stato sorprendente. Ma il villaggio agricolo era molto diverso dalla città cosmopolita e dagli studi universitari che aveva lasciato alle spalle. La sua nuova casa, tuttavia, aveva il suo fascino. Poco dopo il suo arrivo, Sara conobbe mio padre. Si innamorarono, si sposarono e ebbero tre figli: le mie due sorelle maggiori, Shashana (Shoshi) e Ariela (Reli), e, infine, io nel 1962.

In quegli anni iniziali, mia madre si dedicò alla sua famiglia e alla comunità. Era una panettiera rinomata localmente, e il mio guardaroba testimoniava il suo talento per lavorare a maglia i maglioni, ma anche nell’isolamento relativo di Beit Hanan, rimase dedita a una vita intellettuale. Con questo intendo non solo un interesse libresco per l’erudizione, ma il desiderio di applicare il suo intelletto al mondo. Ed è stato questo, e la sua integrità, che hanno fatto sì che i suoi giudizi equilibrati fossero apprezzati da tutti coloro che la conoscevano, dalla dirigenza del nostro villaggio ai visitatori che venivano alla nostra fattoria in cerca del suo consiglio. Ero un beneficiario diretto e quotidiano. Mi ha chiarito quanto le stesse a cuore il mio percorso di vita, le mie scelte e i miei interessi. Come un giardiniere che innaffia e cura una pianta, era dedita e meticolosa nel coltivare la curiosità dei suoi figli.

Ha seguito anche le sue. Quando ero adolescente, è tornata all’università e ha completato la sua laurea triennale. Poi è andata alla scuola di specializzazione, conseguendo un dottorato in letteratura comparata. Questi non erano impegni che la tenevano a distanza da noi; anzi, su suo incoraggiamento, ho seguito le sue lezioni universitarie di filosofia, e su sua insistenza ho studiato molti dei libri nelle sue liste di lettura.
È stata mia madre a farmi innamorare della filosofia, specialmente dell’esistenzialismo. Sognavo di pensare per vivere. Nei fine settimana prendevo un’opera di filosofia, il più delle volte qualcosa degli esistenzialisti, inclusi i romanzi che avevano scritto e ispirato, e poi, con il libro scelto, guidavo il nostro trattore fino a un posto tranquillo sulle colline e leggevo per ore.
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Mi è venuto in mente da quei giorni felici nella fattoria della mia famiglia che se l’umanità trovasse mai un pianeta abitabile su cui stabilire un avamposto della nostra civiltà, le persone che lo popoleranno probabilmente avranno un aspetto e si comporteranno in modo molto simile alle persone di Beit Hanan.

Come dimostra la storia umana, le esigenze immediate di stabilire avamposti di una civiltà si ripresentano.

Per necessità, si sarebbero concentrati sulla coltivazione del cibo e sullo sforzo collettivo di sostenersi a vicenda, dal più anziano al più giovane. Avrebbero dovuto essere tutti ingegnosi e poliedrici, capaci di riparare e progettare macchinari, coltivare raccolti e istruire i giovani. Credo anch’io che si adatterebbero alla vita della mente, anche nella loro lontananza. E, sospetto che quando i loro figli raggiungeranno la maggiore età, si troveranno di fronte alla stessa aspettativa che stavo contemplando: il servizio obbligatorio alla società.

Il mio piano di diventare filosofo e affrontare alcune delle domande fondamentali con cui l’umanità si è confrontata per eoni è stato ritardato a causa della coscrizione obbligatoria di tutti i cittadini israeliani di età superiore ai diciotto anni. Il servizio era richiesto a tutti. Poiché avevo mostrato talento in fisica durante il liceo, fui selezionato per Talpiot, un nuovo programma in cui due dozzine di reclute all’anno lavoravano nella ricerca legata alla difesa, combinata con un intenso addestramento militare. Le mie ambizioni accademiche dovettero essere messe da parte; lo studio di Jean-Paul Sartre e Albert Camus, i filosofi esistenzialisti che avevo letto in gioventù, non si adattava al nuovo ruolo che mi era stato assegnato. Concentrarmi sullo studio della fisica era la cosa più vicina a un’attività intellettualmente creativa che avrei potuto fare durante i miei anni di servizio militare

Sebbene indossassimo l’uniforme dell’Aeronautica Militare Israeliana, ci siamo presentati a tutti i corpi delle Forze di Difesa Israeliane. Abbiamo seguito un addestramento di base per la fanteria, abbiamo frequentato corsi di combattimento in artiglieria e genio, e ci hanno insegnato a guidare i carri armati, a trasportare mitragliatrici durante marce notturne e a lanciarci dagli aerei con il paracadute.

Fortunatamente, ero in forma atletica, quindi le sfide fisiche sono state impegnative ma sopportabili. E parallelamente a queste responsabilità, ho abbracciato con entusiasmo i miei studi accademici all’Università Ebraica di Gerusalemme

Talpiot ci ha imposto di studiare fisica e matematica, che suonava abbastanza simile alla filosofia, e studiare qualsiasi cosa all’università sembrava molto più eccitante che arrancare nel fango con un fucile sulle spalle. Avuta l’opportunità, ho fatto del mio meglio per giustificare la fiducia che il governo aveva riposto in me. Fu anche in questo periodo che iniziai a capire che, sebbene la filosofia ponesse le domande fondamentali, spesso non riusciva a risolverle. La scienza, stavo imparando, potrebbe mettermi in una posizione migliore per cercare risposte.

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Dopo tre anni di studio e addestramento militare avrei dovuto iniziare a lavorare a un progetto industriale o militare con applicazioni pratiche immediate. Ma ho cercato un percorso più creativo, uno che presentasse maggiori sfide intellettuali e di ricerca. Ho visitato una struttura che non era nell’elenco ufficiale delle destinazioni di ricerca, quindi ho elaborato una proposta di ricerca fuori dagli schemi. A quel punto, avevo un curriculum di successi, sia in aula che nell’addestramento militare, e i vertici di Talpiot approvarono la mia idea – inizialmente a titolo di prova per tre mesi e alla fine per i restanti cinque anni del mio periodo di servizio obbligatorio, dal 1983 al 1988.

Il mio lavoro si è rapidamente evoluto in nuove direzioni, alcune delle quali i militari hanno trovato piuttosto intriganti. Attraverso l’emozione dell’innovazione scientifica, ho sviluppato la teoria per un nuovo schema (che ha portato a un brevetto) per utilizzare una scarica elettrica per spingere proiettili a velocità più elevate di quelle raggiungibili con i propellenti chimici convenzionali. Il progetto crebbe fino a impiegare un intero dipartimento di due dozzine di scienziati e fu il primo sforzo internazionale a ricevere finanziamenti dalla Strategic Defense Initiative (SDI) degli Stati Uniti, nota anche come “Star Wars”, l’ambizioso concetto di difesa missilistica annunciato dal presidente Ronald Reagan nel 1983.

All’epoca, la Guerra Fredda, la contesa decennale tra Stati Uniti e Unione Sovietica, tra democrazia e comunismo, tra Occidente e Oriente, sembrava una caratteristica fissa degli affari mondiali. Entrambe le parti avevano accumulato vasti arsenali di armi nucleari, sufficienti a distruggersi a vicenda molte volte.

L’Orologio dell’Apocalisse, ideato dai membri del Bulletin of the Atomic Scientists e destinato ad avvertire l’umanità della probabilità di una catastrofe causata dall’uomo, è stato quasi sempre impostato a sette minuti a mezzanotte.

L’SDI era solo una parte di quel concorso molto più ampio. Prevedeva l’uso di laser e altre armi avanzate per distruggere i missili balistici nemici in arrivo, e sebbene sia stata sciolta nel 1993, ebbe un impatto politico significativo nell’accelerare la fine della Guerra Fredda e il crollo dell’Unione Sovietica.

Questo lavoro ha costituito anche l’ossatura della mia tesi di dottorato, che ho completato a ventiquattro anni. L’argomento era la fisica del plasma, che riguarda lo stato della materia più comune dei quattro stati fondamentali; è la materia di cui sono fatte le stelle, i fulmini e alcuni schermi televisivi. (Nel caso ve lo stiate chiedendo, la mia tesi si intitolava “Accelerazione di particelle ad alte energie e amplificazione di radiazione coerente mediante interazioni elettromagnetiche nei plasmi” – un titolo molto meno accattivante di quello di questo libro, di sicuro.)

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Anche con il dottorato in mano, non ero sicuro di quale dovesse o sarebbe stata la mia prossima scelta. Non ero sposato a una carriera nella fisica del plasma. C’era sempre l’attrazione di tornare a Beit Hanan. E una parte importante di me voleva cambiare rotta drasticamente e tornare alla filosofia. Tuttavia, una catena di scelte, solo alcune delle quali mie, mi ha indirizzato su un percorso diverso.

È iniziato durante un viaggio in autobus durante il mio servizio militare. Il fisico Arie Zigler, seduto accanto a me, per caso ha menzionato che il posto più prestigioso per il lavoro post-laurea era l’Institute for Advanced Study (IAS) a Princeton, nel New Jersey. Più tardi, durante una delle mie visite per incontrare i funzionari della SDI a Washington, DC, e poi a una conferenza sulla fisica del plasma all’Università del Texas ad Austin, mi sono imbattuto nel “papa della fisica del plasma”, Marshall Rosenbluth. Sapevo che la sua precedente sede accademica era l’istituto e gli ho chiesto dettagli. Ha subito appoggiato l’idea che ci andassi per una breve visita. Ispirato, ho chiamato immediatamente Michelle Sage, la funzionaria amministrativa dello IAS, e le ho chiesto se potevo fare una visita la settimana successiva. Rispose: “Non permettiamo a chiunque di venirci a trovare. Per favore, inviami una copia del tuo CV e ti farò sapere se puoi venire a trovarmi

Senza scoraggiarmi, le ho spedito una lista delle mie undici pubblicazioni e l’ho richiamata qualche giorno dopo. Questa volta mi ha permesso di fissare una visita alla fine del mio soggiorno negli Stati Uniti. Quando sono arrivato nel suo ufficio la mattina presto del giorno stabilito, Michelle ha detto: “C’è solo un membro della facoltà qui con tempo disponibile, Freeman Dyson. Lascia che ti presenti.

Ero al settimo cielo. Mi ricordavo il nome di Dyson dai miei libri di testo sull’elettrodinamica quantistica. Poco dopo che mi sono seduto con Freeman nel suo ufficio, ha detto: “Oh, lei è israeliano. Conosci John Bahcall? Gli piacciono gli israeliani. Deve aver visto la curiosità sul mio volto, perché ha aggiunto: “Sua moglie, Neta, è israeliana”. Ho confessato di non aver mai sentito parlare di quell’uomo, figuriamoci di sua moglie, Neta.

John Bahcall era un astrofisico, ho scoperto, e poco dopo ho pranzato con lui. Si è concluso con lui che mi ha esteso un invito a tornare a Princeton per una visita di un mese. Ho appreso che nel frattempo aveva intrapreso una ricognizione all’estero, chiedendo agli scienziati israeliani più illustri, come Yuval Ne’eman, cosa pensassero di me. Qualunque cosa gli avessero detto, alla fine della mia seconda visita, John mi invitò nel suo ufficio e mi offrì una prestigiosa borsa di studio quinquennale, ma a condizione che studiassi astrofisica.

Certo, ho detto di sì.

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Quando mi è stato per la prima volta incoraggiato a dedicare la mia carriera professionale all’astrofisica, non sapevo nemmeno cosa facesse brillare il Sole. Che l’area di competenza di Bahcall fosse la generazione di particelle debolmente interagenti chiamate neutrini nell’interno caldo del Sole rendeva la mia ignoranza sull’argomento ancora più imbarazzante. Fino a quel momento, la mia attenzione si era concentrata sui plasmi terrestri e sulle loro applicazioni più legate alla Terra.

Per essere chiari, Bahcall conosceva la mia area di ricerca passata. Ha esteso l’offerta nonostante questo. Che abbia corso il rischio mi sembrò notevole allora e mi sembra ancora di più ora. (Lo stato del mondo accademico è cambiato da allora, e dubito che sarebbe possibile fare un’offerta simile a un giovane studioso oggi.) Ero e rimango grato. Accettai, determinato a dimostrare che l’istinto di Bahcall — così come l’istinto di tutti gli straordinari scienziati che mi avevano aiutato lungo questo percorso — era giustificato.

Anche se ho dovuto studiare per imparare il vocabolario di base del settore in modo da poter iniziare a scrivere articoli originali, l’area mi era familiare. Il plasma è uno stato che la materia raggiunge ad alte temperature quando gli atomi si rompono in un mare di ioni positivi (atomi che hanno perso alcuni elettroni) ed elettroni liberi con carica negativa. Anche se la maggior parte della materia ordinaria nell’universo attuale (compresi gli interni delle stelle) si trova allo stato di plasma, il campo si concentra sulle condizioni di laboratorio, che sono notevolmente diverse da quelle nello spazio. Sfruttando i miei punti di forza, la prima grande frontiera di ricerca che ho aperto come astrofisico si è concentrata su quando e come la materia atomica nell’universo si sia trasformata in plasma. Così iniziò il mio fascino per l’universo primordiale, la cosiddetta alba cosmica, o le condizioni in cui si formarono le prime stelle.
Dopo tre anni all’IAS, sono stato incoraggiato a candidarmi per posizioni di junior faculty, tra cui una presso il dipartimento di astronomia di Harvard. Ero la loro seconda scelta. Il dipartimento raramente offriva la stabilità ai docenti più giovani, quindi alcuni candidati, tra cui la persona a cui era stato offerto il posto prima di me, ci hanno pensato due volte prima di accettare la posizione.

Da parte mia, ho accettato volentieri. Ricordo di aver riflettuto molto attentamente sulla mia decisione. Mi sono reso conto che se non mi avessero offerto la cattedra, avrei sempre potuto tornare alla fattoria di mio padre o riprendere il mio primo amore accademico, la filosofia.

Sono arrivato ad Harvard nel 1993. Tre anni dopo, ho ottenuto la stabilità lavorativa.

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Da allora sono arrivato a credere che John Bahcall non solo avesse fiducia che potessi affrontare il passaggio dalla fisica del plasma all’astrofisica, ma vedesse in me un’anima affine – o forse anche una versione più giovane di se stesso. Bahcall era entrato al college con l’intenzione di studiare filosofia, ma concluse rapidamente che la fisica e l’astronomia offrivano un percorso più diretto verso le verità più fondamentali dell’universo.

Sono giunto a una realizzazione parallela non molto tempo dopo aver salutato John e l’istituto. Quando ho ottenuto il posto di assistente universitario all’Università di Harvard nel 1993, ho deciso che era troppo tardi per fare un grande cambiamento di carriera e tornare alla filosofia. Cosa più importante, mi ero convinto che il mio “matrimonio combinato” con l’astrofisica mi avesse in realtà riunito con il mio vecchio amore; era solo vestito in modo diverso.

L’astronomia, stavo cominciando a capire, affronta domande che in precedenza erano limitate ai regni della filosofia e della religione. Tra queste domande ci sono le più grandi in assoluto: “Come ha avuto inizio l’universo?” e “Qual è l’origine della vita?”. Ho anche scoperto che fissare l’immensità dello spazio, contemplando l’inizio e la fine di tutto, fornisce un quadro di riferimento per rispondere alla domanda:

“Che cos’è una vita degna di essere vissuta?”.

Spesso la risposta ci sta davanti agli occhi. Dobbiamo solo trovare il coraggio di ammetterlo. Durante una visita a Tel Aviv nel dicembre del 1997, ho avuto un appuntamento al buio con Ofrit Liviatan. Mi è piaciuta subito, un apprezzamento che ha cambiato tutto. Nonostante la distanza geografica tra noi, abbiamo permesso alla nostra amicizia di approfondirsi. Non avevo mai incontrato nessuno come lei ed ero convinto che non l’avrei mai fatto.

Molto prima di confrontarmi con le prove presentate da ‘Oumuamua, avevo imparato che in tutti gli aspetti della vita, prendere le prove che ti vengono presentate e seguirle con meraviglia, umiltà e determinazione può cambiare tutto, a condizione, ovviamente, che tu sia aperto alle possibilità contenute nei dati. Fortunatamente, a questo punto della mia vita, lo ero.

Ofrit ed io ci siamo sposati due anni dopo e, come me, alla fine ha trovato il suo posto nell’orbita di Harvard, ricoprendo il ruolo di direttrice del programma di seminari per matricole dell’università. Nella nostra vecchia casa vicino a Boston, costruita poco prima che Albert Einstein derivasse la sua teoria della relatività ristretta, Ofrit e io abbiamo cresciuto le nostre due figlie. Che una catena causale parta dalla decisione di mio nonno di lasciare la Germania nel 1936 per arrivare all’incontro dei miei genitori a Beit Hanan e a me e Ofrit che cresciamo Klil e Lotem, mi suggerisce che solo una sottile linea separa la filosofia, la teologia e la scienza. Guardare i bambini entrare lentamente nell’età adulta mi ricorda che gli atti più banali della nostra esistenza suggeriscono qualcosa di miracoloso che può essere fatto risalire al Big Bang.

Nel tempo, ho imparato ad apprezzare la scienza leggermente più della filosofia. Mentre i filosofi trascorrono molto tempo dentro la propria testa, gli scienziati sono tutti incentrati sul dialogo con il mondo. Poni alla natura una serie di domande e ascolta attentamente le risposte dagli esperimenti.

Quando fatto con sincerità, è un’esperienza utilmente umiliante. Il successo della teoria della relatività di Albert Einstein non fu dovuto alla sua eleganza formale, che fu sviluppata in una serie di pubblicazioni dal 1905 al 1915. Non fu accettata fino al 1919, quando Sir Arthur Eddington, segretario della Royal Astronomical Society in Inghilterra e astronomo a pieno titolo, confermò la previsione della teoria secondo cui la gravità del Sole avrebbe curvato la luce. Per gli scienziati, ciò che rimane di una teoria dopo il suo contatto con i dati è ciò che viene considerato bello.

Anche se sto lottando con le domande esistenziali della mia giovinezza in modo marcatamente diverso da come hanno fatto Jean-Paul Sartre o Albert Camus, credo che il ragazzo sul trattore sulle colline di Beit Hanan sarebbe stato contento di questo risultato. Avrebbe ammirato la sequenza di opportunità e scelte che è iniziata con un appuntamento al buio e ha portato a una famiglia.

Ma capisco, in un modo che il mio io più giovane non avrebbe potuto, un’altra lezione della storia della nostra famiglia, una che ho tenuto a mente negli ultimi anni mentre studiavo i visitatori interstellari del nostro sistema solare.

A volte, quasi per caso, qualcosa di eccezionalmente raro e speciale ti attraversa la strada. La vita cambia quando vedi chiaramente ciò che hai di fronte.

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Credo che il percorso insolito della mia vita mi abbia preparato all’incontro con ‘Oumuamua. Da un punto di vista scientifico, la mia esperienza mi ha insegnato il valore della libertà e della diversità, rispettivamente nella scelta degli argomenti di ricerca e nella selezione dei collaboratori.

I benefici che gli astronomi possono trarre dal parlare con sociologi, antropologi e politologi e, naturalmente, con filosofi possono essere enormi. Eppure ho imparato che nel mondo accademico, le carriere interdisciplinari spesso condividono il destino delle conchiglie rare portate a riva: se qualcuno non le raccoglie e le conserva, si erodono nel tempo fino a quando le implacabili onde dell’oceano le riducono a indistinguibili granelli di sabbia.

Nel corso della mia carriera, ci sono state molte volte in cui avrei potuto essere deviato verso percorsi diversi, meno fortunati. La mia vita professionale mi ha fatto conoscere molti studiosi con qualifiche simili alle mie, ma che non hanno avuto le mie stesse opportunità. Un’onesta indagine sul corpo docente in tutto il mondo accademico richiama alla mente uomini e donne i cui contributi sono definiti dalle opportunità offerte e dalle opportunità negate. Lo stesso si può dire di quasi tutti i settori della vita.

Sapendo di essere stato beneficiario di individui che hanno offerto tali opportunità, sono profondamente impegnato ad aiutare i giovani a realizzare il loro potenziale, anche quando ciò significa sfidare non solo idee ortodosse, ma, a volte, pratiche ortodosse più perniciose. Nell’ambito di questa missione, ho lavorato duramente per mantenere, nel mio insegnamento e nella mia ricerca, un approccio al mondo che alcuni potrebbero considerare infantile. Se la gente la pensa così, non me la prendo. Nella mia esperienza, i bambini seguono la loro bussola interiore in modo più onesto e con meno pretese di quanto facciano molti adulti. E più i giovani sono, meno è probabile che frenino i loro pensieri per rispecchiare le azioni degli altri intorno a loro.

Questo approccio alla scienza mi ha aperto ad alcune delle possibilità più ambiziose – alcuni potrebbero dire audaci – intrinseche agli argomenti che studio. Ad esempio, l’idea che ‘Oumuamua, l’oggetto interstellare avvistato mentre sfrecciava nel cielo nell’ottobre 2017, non fosse un fenomeno naturale.

Un acquerello con una dichiarazione di Tycho Brahe, un rispettato astronomo che parla a nome della comunità scientifica: “Non fu solo la Chiesa a resistere all’eliocentrismo di Copernico”. (Credito: Greg Wyatt)

L’AUTORE

Avi Loeb è il responsabile del Progetto Galileo, direttore fondatore della Black Hole Initiative dell’Università di Harvard, direttore dell’Istituto di Teoria e Calcolo dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics ed ex presidente del dipartimento di astronomia dell’Università di Harvard (2011-2020). È stato membro del Consiglio dei consulenti scientifici e tecnologici del Presidente e presidente del Comitato per la fisica e l’astronomia delle Accademie Nazionali. È autore del bestseller “Extraterrestrial: The First Sign of Intelligent Life Beyond Earth” (Extraterrestre: il primo segno di vita intelligente oltre la Terra) e coautore del libro di testo “Life in the Cosmos” (La vita nel cosmo), entrambi pubblicati nel 2021. L’edizione tascabile del suo nuovo libro, intitolato “Interstellar”, è stata pubblicata nell’agosto 2024.(Image Credit: Chris Michel, National Academy of Sciences, 2023)

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